Luna Park 2

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Questo anno 2013 che si sta avviando a conclusione conferma agli occhi del mondo l’anomalia italiana.

Infatti, a fronte di una situazione economica sempre più preoccupante, la politica continua ad essere ostaggio di un problema che in qualsiasi altro paese neppure si porrebbe e cioè: un senatore della repubblica, già presidente del consiglio, condannato in via definitiva a quattro anni di  reclusione per frode fiscale (cioè per aver rubato soldi allo Stato che per un certo tempo ha anche  rappresentato) deve lasciare il suo posto in Parlamento?

Altrove, per molto meno, i politici coinvolti in vicende poco commendevoli hanno fatto un doveroso passo indietro ed hanno cercato di uscire dignitosamente dalla scena. Questione di etica.

In Italia, dove evidentemente l’appello all’etica ha poca presa, è stata alla fine approvata una specifica legge (il decreto legislativo 235/2012 o Legge Severino) che, tra le altre cose, prevede la decadenza dalla carica di deputato o senatore per chi abbia riportato una condanna definitiva ad una pena superiore a due anni di reclusione. Ciò sull’onda di un rapporto OCSE che indicava l’Italia come il terzo paese più corrotto al mondo.

Ebbene, oggi il nostro senatore già presidente del consiglio (leader di quello stesso partito che ha contribuito a far approvare in Parlamento la legge sulla decadenza) sostiene che per lui quella legge non può valere. E ciò non tanto per sottili questioni di diritto (sulle quali si stanno spendendo le sue legioni di avvocati) quanto per l’assunto secondo il quale colui che è stato eletto in Parlamento con milioni di voti non ne può essere cacciato senza fare un affronto al popolo che lì l’ha voluto. Naturalmente i suoi corifei si sono precipitati a battersi il petto sostenendo che l’applicazione di quella legge sarebbe un attentato alla democrazia.

La vicenda riporta ancora una volta in primo piano l’eterno conflitto tra gli interessi privati e quelli dello Stato.

Nulla di nuovo sotto il cielo. Già cinque secoli prima di Cristo Sofocle ne aveva trattato in una delle sue tragedie più famose, l’Antigone.

Quell’opera narra la vicenda di una giovane donna di Tebe, Antigone per l’appunto, che decide di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice, ucciso mentre con l’aiuto di un esercito invasore tentava di conquistare la città e diventarne re.

Creonte, nuovo re di Tebe, vieta ad Antigone di dare sepoltura al fratello dando anzi ordine che il cadavere del traditore della città sia lasciato in pasto ad uccelli e cani.

Antigone contravviene all’ordine e dà sepoltura al cadavere del fratello poiché ritiene che il seppellire i propri morti sia conforme alla legge degli dei che è di rango superiore rispetto alla legge della città (cioè degli uomini) cui si affida Creonte.

Scoperta, Antigone viene condannata dal re a vivere il resto dei suoi giorni imprigionata in una grotta dove la giovane donna decide di togliersi la vita impiccandosi.

In sostanza il re Creonte si affida al corpus delle leggi della città di Tebe ed afferma di dover anteporre queste leggi agli affetti familiari rivendicati da Antigone.

Nella vicenda il coro, che nella tragedia greca è sempre uno dei protagonisti, sta dalla parte di Antigone contro Creonte, cioè si schiera dalla parte del privato contro lo Stato (allo stesso modo dei corifei del nostro senatore già presidente del consiglio).

Secoli dopo la vicenda di Antigone è occasione di riflessione per il filosofo tedesco Hegel il quale, nell’opera “Estetica”, pur con tutta la comprensione per le ragioni di Antigone sostiene invece che i diritti derivanti dalla parentela (diremmo oggi dall’appartenenza politica) non possono prevalere sulle leggi della città, cioè dello Stato.

E allora noi oggi da che parte riteniamo giusto stare? Crediamo ancora nel principio costituzionale che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge? Se la risposta è si non possiamo continuare ad essere collusi o semplicemente ignavi dinanzi ad un sistema di privilegi che è durato sin troppo a lungo. Dobbiamo essere noi il “coro” e far sentire la nostra voce, questa volta a favore di Creonte, cioè dello Stato di cui siamo cittadini.